Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Paul Schrader
Usa 1976, durata: 113 minuti
Vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes del 1976, Taxi
Driver rappresenta una straordinaria mescolanza dei generi hollywoodiani.
Il protagonista è un personaggio ibrido, un eroe fallimentare
in bilico tra il cowboy e il gangster. Il western e il noir si fondono.
Travis è un reduce del Vietnam, un individuo insignificante,
estraneo ad una società di cui non conosce i meccanismi, che non riesce a comunicare
mentre assorbe tutta la violenza della vita metropolitana. Un John Doe
postmoderno.
L’incipit è una dichiarazione di poetica iperrealista: fumo,
colori saturi e degrado; un’evidente qualità pittorica dell’immagine, che
viaggia dall’ordinario a una dimensione onirica, irreale.
L’uso del rallenty contribuisce a questo gioco di confusione
visiva simbolica.
La capacità iperrealista di Scorsese si esprime nei momenti
più quotidiani e statici del film, come nella conversazione assurda e totalmente surreale fra i due tassisti: il collega di Travis cerca di dare una risposta ad
una domanda che non gli è stata posta. Si tratta di un contatto privo di una
vera comunicazione.
La sceneggiatura traduce il racconto in
riflessione esistenziale. Ma è una riflessione che non riesce a non apparire paradossale
rispetto al reale.
Tra le inquadrature prolungate che insistono sull’attore, una
New York allucinata e allucinante fa da scenario a questa tensione tra salvazza e
perdizione, a questa lenta e inesorabile discesa agli inferi.
In una parola: straniante
Citazione preferita: “Io ho sempre sentito il bisogno di
avere uno scopo nella vita; non credo che uno possa dedicarsi solo a se stesso,
al proprio benessere. Secondo me uno deve cercare di avvicinarsi alle altre
persone.”
Voto: 9
Complimenti Marta, mi piace tantissimo la tua recensione! Io amo Scorsese, lo trovo geniale. Grazie per avermi ricordato questo film!
RispondiElimina